Titolo beffardamente anacronistico in un pianeta, anzi (massì, facciamo i provinciali), un’Italia pervasa da venti di recessione per trattare del film di questo martedì. Orbene io disserterei allegramente anche riguardo gli eventi politici che hanno portato all’attuale situazione finanziaria mondiale, sfortunatamente ogni volta che ci provo mi assale la medesima sensazione di quando il mio intestino mi avverte di stare annacquando le mie feci, pertanto retrocedo verso territori più consueti.
Il film di cui vado blaterando quest’oggi è “Miracolo a Sant’Anna” di Spike “Do the right thing!” Lee.
L’errore principale che si commette quando si ha a che fare con un opera legata ad un nome talmente imponente da oscurarla è di dedicare le proprie energie per parlare del regista più che del film vero e proprio. Tutto questo patetico mettere le mani avanti è voluto perché adesso vi beccate il pistolotto su Spike.
Mr. Lee fa film scomodi, qualitativamente eccellenti, ma con un grado di controversie tali al loro interno da domandarsi come diavolo faccia a trovare qualcuno che glieli produce (infatti non lo trova, se li produce da solo con la sua 40 Acres & a Mule Filmworks). Spike è un incazzato. Un incazzato nero (che tristezza…). Nessuno come lui ha portato (e, poco ma sicuro, porterà) sullo schermo la rabbia etnica in una maniera così dirompente, deflagrante e, a tratti, poco attraente. Questa è un'altra caratteristica del nostro blackissimo regista. Spike Lee non piace. Viene unanimemente descritto da tutti come un regista impossibile, come una persona sgarbata e aggressiva, come un uomo che “o come dico io o ‘sti cazzi!”, come un tifoso che… beh se avete visto una partita dei New York Knicks, sapete completare la frase.
Tacciato di disinformazione e razzismo più di una volta: “Il regista più razzista di Hollywood è nero!” tuonava un’eminente rivista specializzata statunitense all’uscita del controverso “Get on the Bus” del 1996. Spike, da par suo, si premurò di far sapere che lui con Hollywood aveva poco a che fare, quasi più offeso da questo collegamento con la majors che dell’accusa di poco prima. E dalle majors s’è (quasi) sempre guardato, prendendo altre, non sempre semplici, strade, ma conservando quell’incazzamento radicato, quell’idea che, se non lui, qualcuno prima di lui che condivideva i suoi geni fosse stato (allora e ora) preso bellamente a calci in culo da una società a cui mai aveva chiesto di appartenere. E così fonda la sua casa di produzione con un nome che è tutto un programma (quaranta acri e un mulo era il costo di uno schiavo ai tempi in cui l’uomo era merce di scambio da una parte all’altra dell’oceano).
Una domanda sorge, dunque, spontanea, un regista indubbiamente capace, ma altrettanto indubbiamente rompicoglioni (con cast, produzione, sceneggiatori), un uomo impossibile che fa film per sé stesso e nessun altro e che, salvo rari casi (vedi Inside Man), incassa metà di quello che spende per girare, assurge a tutti gli effetti all’olimpo cinematografico accanto agli altri grandi nomi del cinema. Perché? Beh perché Spike è un regista che immette nelle sue creature un tipo di energia con cui nessuno può competere, né lo scientifico Scorsese o il poppissimo Spielberg : Spike Lee è genuino. E’ riuscito nell’impresa che tanti ha condannato prima di lui, quella di mantenersi vero e coerente a sé stesso, conservando lo spirito che lo caratterizzava sin da quando era studente di cinematografia senza farsi distrarre dalle sirene del (facile) successo o arrendersi all’assimilazione del cinema commerciale.
I film di Spike Lee non sono, dunque, opere di un autore. Sono l’autore stesso, incarnatosi in pellicola ed esposti al pubblico. Denudarsi non è da tutti e con tanta forza, energia e (cocciuta) decisione. E questo è il motivo per cui pure io sono costretto a cadere nell’errore di blablare per trenta e passa righe sul nostro film maker.
Miracolo a Sant’Anna riflette (seppur blandamente) l’immagine del regista afroamericano in un plot che apparentemente sfiora il fantasy: la storia ruota attorno alla 92a Divisione americana 'Buffalo Soldier' i protagonisti di questo film significa raccontare di una formazione militare realmente esistita, che ha realmente combattuto per la liberazione italiana durante la Seconda Guerra Mondiale, ma che forse non è sufficientemente nota. E narrare la vicenda di questi soldati è un modo per parlare piuttosto apertamente della subordinata condizione nella quale la popolazione di colore si trova a vivere nel suo stesso Paese. Le tematiche politiche sono tutt’altro che sottointese (la divisione militare, l’Italia come luogo lontano ed “esotico” non bastano ad allontanare gli spettri di una segregazione razziale allora come oggi inquietantemente presente).
L’argomento è trattato con la delicatezza di Spike Lee, ovvero senza delicatezza. Ignorando gli strepiti e le critiche che accompagnano (e devono accompagnare) un’opera del genere, l’autore punta dritto lungo la sua strada, senza cadere in facili banalità (anche se qualche cliché american style fa capolino).
Un bel film, degno di un biglietto del cinema, ma che deve essere affrontato con lo spirito giusto e l’allegrezza piena che accompagna la bastonata sui denti che Spike non vede l’ora di darvi.
Quasi dimenticavo il tema che da il titolo a questo modestissimo pezzo di critica: Pierfrancesco Favino è bravo. Lo dicono tutti e lo dico anch’io. Con la speranza che non si bruci come Accorsi.
Questi sono i prodotti che dovrebbe esportare l’Italia, attori capaci di ricoprire ruoli importanti in film importanti con un’umiltà degna davvero di nota. Altro che melense ovvietà alla Pursuit of Will Smith o oscenità tronfie con Raul Bova a far da spalla.
20.10.08
MIRACOLO ITALIANO
Etichette: 40 Acres e a Mule Filmworks, cinema, hollywood, miracolo sant anna, Pierfrancesco Favino, sbloggy cinema, spike lee
Pubblicato da M.A. alle lunedì, ottobre 20, 2008
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