6.11.08

MY NAME IS CHANGE

Buongiorno a tutti,

oggi abbiamo deciso dopo una lunghissima riflessione(causa, appunto, del nostro ritardo nella pubblicazione) di ignorare la solita impostazione "immagine-frase della settimana" e di sorvolare sui contenuti da voi iniviati per omaggiare il nuovo presidente americano! Ricordatelo ragazze/i il 4 novembre 2008 rimarrà impresso a fuoco nella storia...

Gli Stati Uniti d’America sono un paese di destra. Su questo non ci piove. Basti pensare al fatto che i democratici, pur avendo messo in campo il candidato più carismatico e convincente da cinquant’anni a questa parte, non hanno comunque la vittoria assicurata, anzi. E’ un paese chiuso e spaventato, molto di più rispetto a quanto abbia da temere. Un paese impaurito da ciò che c’è fuori ma, soprattutto, di quello che cova al suo interno.
Sono passati trecento anni (il tempo necessario all’uomo per sostituire le lance con i fucili) e ancora, immersi nello strombazzato nuovo millennio, gli americani hanno più o meno fiducia in una persona a seconda della quantità e del tipo di melanina della sua pelle. A seconda se sia bianco. O nero.
L’America è un paese enorme, collassato in sé stesso e alla continua ricerca di un’unità che spesso trova soltanto quando viene ferito. L’America, spazi sconfinati, dove esistono cattolici evangelici che nutrono lo stesso fervore nel declamare la Bibbia, che a incoraggiare un bombardamento in terra straniera. L’America, patria ed insegnante di democrazia, casa della stampa libera e di un potere (apparentemente) suddito di chi lo ha eletto.
Un mondo in contraddizione continua, che non ammette influenza esterna alcuna. A tratti Atlantide, a tratti Babilonia, spesso Cina. In cui l’operaio è conservatore e il manager è liberale. In cui l’affluenza record non supera il cinquanta per cento degli aventi diritto.
In tutto questo noi, Italiani, Europei, il resto del mondo. Attoniti ad assistere al complicato balletto delle schede punzonate (o scannerizzate, o chissà che diavolo…) ed in attesa di un risultato che sappiamo (forse con maggior coscienza di loro) essere cruciale per i destini del mondo.
Quando leggerete queste poche righe, probabilmente si saprà già chi è il nuovo presidente degli Stati Uniti D’America. Che strada ha deciso di intraprendere al bivio. Un bivio che spunta oltre una strada dolorosissima, lungo la quale, il presidente più inetto della storia degli USA ha condotto la sua nazione trasformandola da simbolo di democrazia (già traballante) a barbara caricatura di sé stessa. George the Worst, George il peggiore, come viene chiamato, ha devastato l’economia, condannato ad un inferno centinaia di migliaia di soldati statuinitensi e fallito in qualsiasi tentativo di mantenere i solidi rapporti diplomatici che l’America aveva faticato a costruire.
Non so se Obama sia il futuro. Non so se sarà il presidente moderno, ottimista, pacificatore che ci aspettiamo che sia. Ora come ora non so neppure se sarà eletto, ma se ciò dovesse accadere starà a lui dimostrare i suoi propositi.
Proseguire la strada della chiusura, dell’intransigenza e della durezza, o tentare di usare questo potere, immenso e incontrastato, per dare il via ad un’epoca che oggi possiamo solo sognare.
Lo ripeto, non so se Obama sia il futuro. Ma so che è il cambiamento. E dopo quello che la nazione ha passato negli ultimi dieci anni un cambiamento non è più una possibilità, non è più un’alternativa. E’ una necessità.

Nik

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